CINEMA MON AMOUR

Giovanna Taviani

Le donne e il confronto con la Storia: diario di bordo sulla Festa del Cinema di Roma. Con un epilogo pirandelliano

Sono rientrata da poco da Salina, l’isola in cui da sedici anni dirigo il Salina Doc Fest – festival internazionale del documentario narrativo, e ho ricevuto la bella proposta di curare una rubrica sul cinema per MadeinSicily, già media partner del nostro Festival.

Ho accettato subito con entusiasmo e ho deciso di cominciare da un resoconto della XVII edizione della Festa del Cinema di Roma, che ho cercato di seguire come ho potuto e come cerco di fare dal primo anno, quando la nascita di una festa del cinema a Roma, la città in cui vivo, mi dette lo spunto per fondare un Festival del documentario a Salina, l’isola che ho scelto come dimora dell’anima.

Quest’anno, in particolare, mi incuriosiva la nuova direzione artistica di una donna come Paola Malanga, già Vice Direttore di Rai Cinema e responsabile di Produzione Documentari e Innovazione Prodotto, che noi cineasti del reale abbiamo sempre seguito con attenzione. La Festa si divideva tra l’Auditorium e alcune grandi sale cinematografiche della capitale, come il Giulio Cesare, la Casa del Cinema, il Sacher di Nanni Moretti e il Maxi. Il primo dato che mi ha colpito è stata l’affluenza del pubblico.

Le sale erano sempre piene, a tutte le ore del giorno. Dopo due anni di chiusura nelle nostre case a causa della pandemia, la gente è tornata in sala a condividere emozioni, a tracciare nuove esperienze nel proprio orizzonte quotidiano, a incontrare gente di fronte al grande schermo per poi discutere del film all’uscita, come si faceva tanti anni fa, quando Roma era la capitale del cinema.

Mi hanno sorpreso i giovani arruolati come stagisti dalla Festa, i loro sguardi attenti, i loro taccuini, la loro passione. E la presenza forte e rigogliosa del cinema italiano: tra film di finzione, serie e documentari abbiamo visto passare registi come Francesca Comencini, Mario Martone, Roberto Andò, Gianfranco Pannone, Alex Infascelli, Paola Randi, Francesco Patierno, Renato De Maria, Michele Placido, e molti altri ancora.

Ma la vera novità della Festa è stata la nuova sezione competitiva del Concorso Progressive Cinema – sedici film selezionati in anteprima assoluta da tutte le parti del mondo, tra cui due italiani, La cura di Francesco Patierno e I morti rimangono con la bocca aperta di Fabrizio Ferraro, che ha visto premiato il film lituano di Viesturs Kairiss January (Lettonia Lituania Polonia 2022), storia di tre giovani aspiranti filmmaker, tra cui il regista stesso che allora aveva 19 anni, e di una generazione che sognava il cinema di Bergman, Tarkovskij e Jarmush durante l’invasione dei carri armati sovietici in Lettonia nel 1991.

A presiedere la giuria – affiancata dall’attore regista Louis Garrel, che ha presentato il suo film L’innocent nella “Sezione Best of 2022”, dai registi Pietro Marcello e Juho Kuosmanen, e dalla produttrice Gabriella Tana – è stata scelta Marjane Satrapi, la regista e fumettista iraniana, autrice dell’acclamato film di animazione Persepolis, candidato all’Oscar, e di opere come Pollo alle prugne, interpretato dall’attrice iraniana trapiantata a Parigi Golshifteh Farhani, che invitammo a Salina in una delle prime edizioni e che vorremmo far tornare sull’isola per una intera sezione dedicata alle donne iraniane.

Da lei, da Marjane Satrapi, ho deciso di partire per proporvi un resoconto personale della Festa del Cinema di Roma, e con lei ho scelto di seguire un filo rosso particolare che mi sembra aver attraversato la programmazione di questa edizione: le donne e il confronto con la Storia.

Non sarà un resoconto critico dei film. Sarà un diario di viaggio personale, intimo e soggettivo, scandito dalle mie emozioni, quello di una donna che ha deciso fare la regista.

Vorrei partire dalla figura di una piccola grande donna, l’attrice britannica Sally Hawkins, candidata agli Oscar nel 2013 come miglior attrice non protagonista in Blue Jasmine di Woody Allen, che abbiamo iniziato ad amare in film come il Segreto di Vera Drake e Happy Go Lucky di Mike Leigh (per il quale si è aggiudicata un Golden Globe e un Orso d’argento come migliore attrice al Festival di Berlino), e che qui alla Festa di Roma ci ha trascinato nella storia appassionata di Philippa Langley, protagonista del film di Stephen Frears The Lost King, presentato nella “Sezione Grand Public”.  

Philippa è donna di circa 50 anni, che vive a Edimburgo, madre e moglie irrisolta, soprattutto dopo la separazione dal marito (interpretato dal bravissimo Steve Coogan, anche cosceneggiatore del film), che non ama il proprio lavoro ma ha una ossessione che la perseguita: rintracciare i resti di un re inglese rimasti nascosti per oltre 500 anni e ribaltare tutti i luoghi comuni di su Riccardo III, l’ultimo Re di Inghilterra, che le appare di giorno e di notte su un cavallo bianco per reclamare il diritto di essere se stesso, al di fuori delle maschere sociali che altri gli hanno attribuito nel corso dei secoli.

La sua è una lotta all’ultimo sangue contro il patriarcato del mondo accademico, contro la storia scritta dai vincitori e contro il canone shakespeariano, che ha consegnato ai posteri l’immagine di un Re usurpatore (per le modalità con cui era salito al trono) e malvagio (il re che uccise i suoi nipoti).

Per riportare alla luce con determinazione la vera personalità di Riccardo, Philippa organizza una raccolta di fondi per degli scavi archeologici in un parcheggio della città e a capo della squadra si mette in cerca dei resti del cadavere scomparso. Dopo mesi di battaglie contro la burocrazia e contro lo scettiscismo del potere ufficiale – il film è ispirato a un fatto vero avvenuto a Leicester nel 2012 – la donna ritrova i resti della salma del Re.

La stampa e il potere accademico la offuscano, gli allori vanno al professore archeologo che l’ha sostenuta e che in questo modo può accelerare la propria carriera universitaria. Philippa resta nell’ombra.  Ma non smetterà mai di portare il suo messaggio nelle scuole, laddove il canone si riscrive e si tramanda alle giovani studentesse che, in un futuro speriamo non troppo lontano, saranno le nuove protagoniste della società e combatteranno per la difesa della verità storica.

“La storia di Langley – ha dichiarato Frears durante l’incontro con il pubblico – è una bella storia proprio perché è stata portata avanti da una donna che è stata una vera combattente. Come tale, ha preso il controllo della propria vita e ha vinto quell’invisibilità a cui una società maschilista voleva condannarla”.

Grazie a lei nel 2018 il nome di Riccardo III è stato inserito nella timeline del sito web della Famiglia Reale Inglese: non più come usurpatore ma come legittimo sovrano d’Inghilterra dal 1483 al 1485.

Il mio viaggio continua, sorpreso e stupito, da Salina a Roma Isola Aperta, per riprendere il titolo di un documentario italiano presentato qui alla Festa fuori concorso. Seguo l’incontro con la compagnia di attrici ex detenute della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, che, dirette da Francesca Tricarico, hanno deciso di rivisitare il mito di Medea: Medea in sartoria con le donne del Muro alto, nella “Sezione Incontri e Convegni”.

Non riesco a vedere la serie di Francesca Comencini Django – un nuovo western al femminile che parla di crisi maschile tramite un genere che più di ogni altro ha fissato i codici della virilità -, ma me ne parlano un gran bene, e non ho dubbi perché è una regista che amo e che ha portato a Salina Doc Fest alcuni piccoli capolavori documentaristici come La fabbrica, che ancora ricordo al Porticciolo Turistico di Santa Marina Salina, con la gente seduta sulle barche e un incontro moderato da Alberto Crespi talmente appassionato che neanche la tempesta di Eolo riuscì ad interrompere.

Vedo però il bellissimo documentario di e su Annie Ernaux, Les Années Super-8, presentato nella sezione “Best of 2022”. Lavoro intimo e poetico realizzato dalla scrittrice francese – autrice del romanzo Gli anni (2008), vincitrice dei premi Marguerite Duras, del Prix de la langue francaise, del Premio Strega europeo del 2016 e del Premio Nobel per la Letteratura 2022 -, che a un certo punto della sua vita, insieme al figlio David, decide di aprire il baule dei ricordi e di montare insieme i filmini in super-8 girati dal marito Philippe Ernaux.

Ne viene fuori un piccolo film allegorico, che mentre finge di parlare di cronaca familiare, racconta altro.

“Rivedendo i nostri filmini super 8 girati tra il 1972 e il 1981 – ha dichiarato la scrittrice nell’incontro con il pubblico tenuto al Maxi – mi è venuto in mente che potessero valere non solo come archivio di famiglia ma come testimonianza dei passatempi, dello stile di vita e delle aspirazioni di una classe sociale nel decennio successivo al 1968. Volevo incorporare queste immagini mute in una storia che combinasse l’intimo con il sociale e con la storia, per trasmettere il gusto e il colore di quegli anni”.

E in effetti è proprio il vento fortiniano dei destini generali intrecciati ai destini particolari a guidare la voce di Annie Ernaux. Solo il suono di una cinepresa e la voce fuori campo di una donna che attraversa una epoca da un punto di vista prettamente femminile.

Una donna che si sentiva in più rispetto al marito e che scriveva di nascosto durante i viaggi per superare il dolore – il matrimonio con Philippe Ernaux, avvenuto nel 1964, da cui nasceranno due figli, finisce all’inizio degli anni 1980, quando il marito la lascia dopo 17 anni di vita insieme -.

Mentre il marito la filmava, Annie scriveva la sua storia. Scriveva la nostra storia. Dall’infanzia dei figli negli anni 70, in un Occidente ancora preindustriale, con i primi viaggi verso luoghi incontaminati e portatori di un possibile modello alternativo di vita.

Il Cile di Alliende, la lotta contro l’imperialismo e contro l’inquinamento.

Poi Tangeri e il Marocco.

“Viaggiare coi bambini per spaesarli”, recita la voce narrante nel film: era l’obiettivo di una educazione volta ad aprire la mente dei ragazzi, attraverso la conoscenza di altri mondi, altre lingue e altre culture.

Tutto questo annota Annie sui suoi taccuini, mentre gira col manoscritto del nuovo romanzo in tasca, che spera potrà salvarle la vita.

Ma la scrittura può davvero salvare la vita?

Forse può essere un’arma per ridare potere al linguaggio sempre più fuso con il linguaggio del potere. «La lingua è il riflesso di una posizione sociale – continua la scrittrice -. Dobbiamo usarla con consapevolezza senza farci schiacciare dalle parole delle classi dominanti».

Scorrono le immagini di Annie, spaesata e spaesante in giro per il mondo, mentre la sua voce narrante chiarisce a noi spettatori le ragioni che hanno portato alla stesura di capolavori come Il Posto (vincitore del Premio Renaudot nel 1984), l’adesione al femminismo, l’amore per il grande modello di Simone Weil, gli articoli a sfondo politico pubblicati su “Le Monde”, la difesa dei referendum abrogativi su divorzio e aborto nel 1974 e nel 1978.

Ma l’uscita e il successo dei romanzi non le cambiano la vita.

Mentre in Francia impazza Nino Ferrer, la famiglia visita l’Albania nel pieno della dittatura. Poi Londra e l’Inghilterra. Il marito a lavoro e lei in hotel a scrivere.

La crisi sentimentale scoppia in Corsica, alle soglie dei 40 anni. Il marito smette di filmarla. Annie avverte la noia dei pranzi ufficiali. Legge Paul Nizan, cammina a lungo nelle spiagge per fuggire dal gelo della fine di un rapporto. Poi è la volta della Spagna dopo la morte di Franco. Le corride, la lettura di Hemingway, l’arrivo a Pamplona.  I conflitti scoppiano, Annie si sente “di troppo nella vita del marito”. Pubblica il romanzo La donna gelata.

Siamo nel 1981, la famiglia è in Portogallo, la crisi esplode.

In voce off Annie mette a fuoco l’inquadratura principale e sussurra: «La cinepresa non cerca più momenti felici. Spariscono i volti e le anime».

Mosca è l’ultimo viaggio. Lo schermo si fa nero.

Con la fine del film finisce anche una storia e finisce un’intera epoca.  

Resta la solitudine e il coraggio di una donna, che a diciannove anni, quando lavorava come ragazza alla pari, soffriva di bulimia, e che il prossimo 10 Dicembre volerà all’Accademia di Stoccolma, che ha deciso di premiarla «per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale».

Ripenso alle grandi donne del passato. A quelle che ce l’hanno fatta e a quelle che sono restate nel silenzio. Ripenso al binomio tra donna e creatività, a cosa significa essere donna e fare la regista, un mestiere tradizionalmente considerato maschile.

E mi torna in mente un mio vecchio progetto scritto nel pieno dei miei 40 anni, che doveva titolarsi Essere Donne, un titolo coniato da un’altra grande madre per noi documentariste: Cecilia Mangini. Era un viaggio da Roma a Parigi a Berlino, fino alle spiagge della California, attraverso quattro generazioni di donne che avevano inseguito la passione della loro vita e che ora erano registe affermate in tutto il mondo: da Agnès Varda a Marjane Satrapi, da Margarethe von Trotta a Jeanine Meerapfel, da Kathrin Bigelow a Jane Campion.

Quali sacrifici compiono le donne per inseguire i propri sogni? Si può fare un lavoro da uomini senza perdere la propria femminilità? E il cinema, il fuoco della creatività, può occupare uno spazio nel tuo ventre come il frutto dell’uomo che ami?

Le risposte le ritrovo qui, alla Festa del Cinema di Roma, con il bel documentario su Jane Campion, la femme cinéma di Julie Bertuccelli (Francia 2022), già presentato al festival di Cannes, che vedo subito quello della Ernaux nella sezione “Freestyle”.

Anche qui le immagini di repertorio sono scandite e accompagnate dalle parole della protagonista, passando dall’autobiografia alle interviste, al racconto degli ostacoli e dei pregiudizi cui le registe donne hanno sempre dovute sottostare per fare un lavoro considerato prettamente maschile.

Prima donna nella storia (e per quasi trent’anni unica) ad aver vinto la Palma d’oro a Cannes con Lezioni di piano (1993), vincitrice di tre Oscar come miglior sceneggiatura originale, migliore attrice protagonista (la Hunter) e miglior attrice non protagonista (la piccola Anna Paquin), e di un Oscar per la migliore regia con Il potere del cane (2021), prima presidente di giuria a Cannes – che premiò la nostra Alice Rohrwacher per le Meraviglie -, Jane Campion è la regista donna per eccellenza.

Ci ha pensato lei a creare un nuovo modello femminile: la donna diversa, altra, forte nella sua fragilità. Come esprime il suo volto sorridente a Cannes nel 2007, per la convocazione di tutti i vincitori della Palma d’oro nel mondo. Lei, unica donna tra registi uomini come Dardenne, Tarantino, Von Trier, Soderbergh, Linch, Angelopoulos…Tra gli sguardi imbarazzati riconosco anche quello di mio padre e mio zio, i Fratelli Taviani, e la Campion in mezzo, la più alta, forse anche la più felice.

“A 16 anni volevo solo raccontare storie. Non gareggiare con i maschi – racconta a chi la intervista ripercorrendo le sue lotte, i suoi sogni e le sue aspirazioni – La storia è fatta da uomini che non sanno neanche lontanamente cosa pensano le donne”. Figlia di un regista teatrale molto affermato – «mio padre era uno che pensava che Shakespeare fosse la bibbia» – e di una attrice bravissima di teatro, Jane decide di iscriversi all’università per distinguersi dai genitori e trovare una propria identità. Decide di studiare materie “serie”, antropologia, poi pittura.

Ma non le basta, e a poco a poco comincia a inquadrare le persone.

Si iscrive a una scuola di regia, dove sono tutti registi maschi e c’è molta competizione, soprattutto sulla tecnica, come una gara a chi è più “tecnico” degli altri.

“Io allora facevo l’opposto: cercavo l’inquadratura”.

A 25 anni decide di smettere di pensare solo di avere un potenziale visivo, e di rischiare di tirarlo fuori, di usarlo. Gira il suo primo corto, Peel, 1986. Ma gli insegnanti lo destano e lo bocciano. Lo stress le causa uno svenimento durante le riprese e la corsa al pronto soccorso in ambulanza. Non avrebbe continuato a fare cinema se alcuni compagni intimi della scuola non le avessero consigliato di tagliare alcune scene ridondanti e di lasciare solo quelle più belle.

“Giorni dopo mi chiamarono da Cannes, era un produttore che selezionava i corti per il Concorso, mi portarono sulla Croisette. Vinsi la mia prima Palma d’oro”. Poi fu la volta di Sweetie (1989) e di Un angelo alla mia tavola (1990), la storia vera della scrittrice Janet Frame che per una diagnosi sbagliata di schizofrenia patì 9 anni di manicomio e 200 elettroshock e si salvò dalla lobotomia grazie a un premio letterario.

Nasce il cinema di Jane Campion, un caleidoscopio di personaggi e storie femminili che hanno popolato il mio percorso di cinefila e hanno messo in scena, dagli anni Sessanta in poi, la difficile e faticosa evoluzione dell’immaginario delle donne e sulle donne.

“Mi interessava indagare l’identità sessuale nell’adolescenza femminile. Durante le riprese i tecnici erano molto scortesi. Criticavano il mio modo di posizionare la macchina da presa e di far muovere i personaggi. Ma io era la regista e andavo avanti per la mia strada”. I suoi temi cominciano a delinearsi e a farsi chiari. “Con i miei personaggi femminili lotto per esistere. La scrittura di un film per me è un’arma contro la difficoltà ad esistere in quanto donna”.

Ada, la protagonista di Lezioni di piano, è muta perché non l’hanno mai ascoltata. Quel film mette Jane Campion a dura prova come regista di fronte a un cast tanto importante. “Avevo paura di non saper dirigere un attore come Harvey Keitel. E così gli telefonai: – Come faccio a dirigerti? – Lui rispose: – Io ti dirò come vorrei fare la scena, ma poi farò tutto quello che mi dirai tu. E così fu”.

Ada usa gli uomini per il proprio desiderio sessuale, per la prima volta sullo schermo vengono esplorati gli istinti femminili di una donna e il piacere nel sentirsi oggetto di desiderio. “Durante le riprese io li osservavo, come una antropologa. Mi interessava il tema della sessualità femminile, ma anche della mascolinità”.

Poi racconta i retroscena della scena in cui Harvey decide mettere una mano sulla spalla nuda di Ada, mentre suona il pianoforte. “Harvey restò per ora in silenzio a guardare quella spalla, e a pensare, in silenzio, mentre io aspettavo che si decidesse a fare l’azione. Quando la sfiorò, delicato e determinato, noi donne provammo tutte un brivido sulla schiena”. Dietro quel film c’era Cime tempestose di Emilie Bronte e c’erano le grandi scrittrici donne dell’800. Un film è grande quando ha una grande scrittura dietro – mi diceva sempre mio padre -; -per imparare che cosa è un carrello leggete Grandi Speranze di Dickens – gli faceva eco Monicelli.

Lezioni di piano vinse la Palma d’oro a Cannes e Jane andò a ritirarla incinta di nove mesi. “Voglio che il pubblico ami il mio bambino – aveva dichiarato in una intervista prima di partire -. I miei film per me sono prima di tutto dei figli”.

Dopo dieci giorni la Campion perse il bambino. Un trauma devastante che la portò alla decisione di fermarsi con il cinema. Un anno dopo, nel 94, nacque Alice, che lavora a propria volta come attrice.

Un grande risarcimento emotivo per la regista, che a un certo punto nel documentario confessa il problema di tutte le donne che non vogliono rinunciare alla propria passione creativa senza perdere al tempo stesso il diritto di essere madri: il tempo.

“Lavoro sei giorni a settimana per sedici ore al giorno. Quando starò con mia figlia?  Ho cinquanta anni e una figlia di nove. Devo occuparmi di lei”.

Due anni dopo, nel 96, realizzerà Ritratto di signora, poi In The Cut nel 2003, Bright Star nel 2009 (sul giovane poeta John Keats) e nel 2021 il Potere del cane, mentre dal 2013 al 2017 scriverà e girerà per la televisione la serie di successo in 5 episodi Top of the Lake.

Una battaglia vinta.

Esco dalla proiezione e riprendo la strada per casa, nella bella città di Roma, mentre mi torna in mente che la Nuova Zelanda è il primo paese in cui le donne hanno avuto diritto di voto. Penso alle registe di successo, alle scrittrici, alle grandi donne che hanno segnato il nostro destino.

E ripenso ai dati sull’occupazione femminile nel mondo del cinema in Italia presentati da Paola Randi alla Festa del Cinema di Roma, nell’ambito del panel di approfondimento organizzato da 100autori sul tema dell’uguaglianza di genere, Gender Equality.

La regia è un mestiere per donne? – si chiede e ci chiede la regista di Into Paradiso (2010) Tito e gli alieni (2018). Diremmo di sì, eppure i dati delle registe donne registrano solo un 22% rispetto al totale dei registi uomini europei. L’ultima ricerca del Ministero fatta nel 2020 mostra addirittura che nelle richieste di fondi per lungometraggi solo il 12% proviene da registe donne.

Le cose stanno migliorando grazie all’Associazione 100 Autori, di cui Paola Randi cura il coordinamento del gruppo sulle pari opportunità.

Ma c’è ancora tanto lavoro da fare. La Festa finisce, ma non la voglia di andare al cinema e di fare cinema.

Poi leggo sui bollettini Cinetel che La stranezza di Roberto Andò si è aggiudicato la vetta del boxoffice italiano del weekend, registrando 1.106.300 euro in quattro giorni e risultando così il miglior esordio italiano dell’anno. Lo avevo visto qualche giorno prima in una sala Sinopoli stracolma, alla presenza del cast di eccellenza, del regista e del co-sceneggiatore Massimo Gaudioso.

E mi ero commossa.

Forse il mio amore per Pirandello, a cui ho dedicato la mia tesi di dottorato; forse la presenza fantasmatica di mio padre, che a Pirandello è stato sempre legato. Fatto sta che appena uscita avevo mandato un messaggio ad Andò: «Mi hai riconciliato con il cinema e con la morte».

Perché La Stranezza è una sonata di fantasmi, di persone che non ci sono più. “Il commercio con la morte – ha dichiarato Andò a proposito del film – non è solo dei becchini, ma anche di chi crea”.

 Lo si capisce da subito, da quella scena iniziale in treno in cui Pirandello (interpretato da un grandissimo Toni Servillo) torna al paese d’origine per assistere al funerale di Maristella, la balia che quando era piccolo gli raccontava le storie delle novelle.

Il mio pensiero corre subito a un altro viaggio in treno, in un film lontano nel tempo e a me molto “familiare”, che racconta un altro ritorno a casa di Pirandello (in quel caso interpretato da Omero Antonutti) per incontrare la madre morta che lo ha chiamato per dirgli quello che non è riuscita in vita.

Quel film era Kaos ed era tratto dalle Novelle per un anno.

Ritorno alla Stranezza e alla coppia Pirandello-Servillo. C’è una donna che gli appare nello scompartimento, e lo perseguita. Sorride perché vuole mettere in scena la sua storia, come tutti i fantasmi che ogni mattina si presentano dall’autore per chiedere…udienza.

È lo spunto per i Sei personaggi in cerca di autore.

Arrivato al paese, Pirandello incontra due becchini, personaggi di fantasia, che suggeriscono all’autore la strada del fuoco che governa l’atto creativo. I becchini sono il tramite con la morte, ma al tempo stesso fanno teatro, pertanto creano un ponte tra chi è vivo e chi è morto. Come tutti i personaggi che popolano il corpus delle Novelle.

La scelta di due attori comici come Ficarra e Picone (già scoperti da Andò quando era direttore del Teatro greco di Siracusa per Le Rane di Aristofane, con la regia di Giorgio Barberio Corsetti), riporta alla grande tradizione di attori comici utilizzati dal cinema italiano per film pirandelliani: da Questa è la vita – La Patente interpretato da Totò; a Liolà interpretato da Ugo Tognazzi; fino a Kaos e Tu ridi di mio padre e mio zio, interpretati rispettivamente da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che ancora ricordo sul set siciliano mentre interpretavano Don Lollò e Zi Dima nell’episodio della Giara, e da Antonio Albanese nei panni di Felice.

«Ho sempre saputo che Ficarra e Picone sono due grandi attori e ho sempre saputo che accanto ai toni comici della commedia avevano i toni malinconici del dramma – ha dichiarato Andò dopo la prima alla Sinopoli -. Abbiamo fatto il provino insieme a Toni e ho capito subito che l’impasto era perfetto. Un po’ come faceva Pietro Germi quando metteva insieme Mastroianni e Urzì»

L’ultimo quarto d’ora del film, con l’insuccesso dei Sei personaggi in cerca di autore al Teatro Valle, di fronte agli occhi di Pirandello e della figlia Mietta, resta nel cuore. Mietta era la protagonista di un altro episodio del film Tu ridi, che poi non entrò nel film dei miei. Si chiamava La Figlia e raccontava proprio di quella serata al Valle.

Mio padre mi raccontava sempre di quell’epilogo tragico di Pirandello, la gente che gridava “Manicomio! Manicomio!” tirando le monetine. “Il mondo è cattivo – diceva – bisogna crederci sempre, altrimenti vieni schiacciato”.

Pirandello ci ha creduto. Ci ha creduto Roberto Andò con il suo bel film e con quel finale contro un mondo omologato che non vede e non sente. E ci ha creduto il pubblico che è corso in sala a vederlo.

Alla fine restano la grandezza dell’arte e il mistero della creatività.

Resta il cinema.

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